mercoledì 31 maggio 2017

Raccontare la Palestina e la sua collettività come pratica di Resistenza. Di Omar Suboh

Postfazione

Raccontare la Palestina e la sua collettività come pratica di Resistenza.

Scrivere una postfazione per un autore è, e rimane, un compito arduo, ma il tutto è reso ancora più delicato se l’autore in questione risulta essere il proprio padre. In tempi non sospetti si sarebbe parlato di ‘conflitto di interessi’, ma avendo assistito alla genesi di questi racconti come una lenta e progressiva evoluzione che ha preso corpo in maniera sempre più veloce e rapida, partecipando attivamente alla loro stesura con consigli, letture in tempo diretto, correzioni e confronti fisici (anche piuttosto accesi e vivi!), penso di essere arrivato al punto di poter esprimere un giudizio distaccato e disinteressato. Gente della terra santa è un’opera composta di racconti, una raccolta delle voci che vengono dal profondo di una terra sacra, violenta e poetica contemporaneamente.

Una narrativa corale che prende forma nell’epica del nostro tempo: l’occupazione. L’assedio di Gaza, i muri di separazione nella Cisgiordania, i campi profughi nel Libano ecc., vengono superati metaforicamente con la forza dell’immaginario.
Nella galleria di immagini che scorrono nei racconti, vi sono alcuni tratti che ritornano come elementi fissi, e penso ai racconti dei vecchi, seduti nelle case intorno ai propri familiari che pendono dalle loro labbra come profeti portatori della Verità di Dio. Le loro rughe, interrogate continuamente come se racchiudessero le risposte sepolte tra i solchi segnati dal Tempo.

Il racconto autobiografico si sovrappone al racconto dei protagonisti della terra di Palestina, traspare la solitudine in ambulatorio del medico/narratore, il quale in Gente della terra Santa, omonimo racconto che dà il titolo al libro, schiacciato dall’angoscia spera “nella visita di qualche paziente” (siamo a ferragosto!) Il suo interlocutore è un anziano minatore che non riesce a darsi pace della scomparsa di un suo vecchio amico, sepolto nella miniera di Serbariu. L’incontro sarà il pretesto per un viaggio, metaforico e reale, a Betlemme. Il tema del ritorno si affaccia con forza, infatti è dal ritorno nella propria terra che riaffiorano i ricordi mai svaniti della gente di quei luoghi, come Adnan. Ogni incontro ha la funzione di aprire nuove finestre sulla storia della Palestina, così come Adnan il ribelle che veniva allontanato dalla classe, perché non si accontentava dei programmi rigidamente imposti dall’alto che non lasciavano spazio alla conoscenza autentica delle vicende del suo paese.

In ogni episodio si viene a conoscenza di una serie di elementi che caratterizzano quei luoghi: le vie strette, le case di mattoni attaccate le une alle altre; i piatti tipici, per citarne alcuni come la maqluba (‘rovesciata’ di riso con melanzane e cavolfiore), l’hummus e i falafel, il dolce knafeh ecc.; i costumi tradizionali nel racconto della nonna, la quale afferma di poter riconoscere dai colori e dai disegni ricamati dei vestiti di chi li indossa, il paese di provenienza; la condivisione dei rituali, il multiculturalismo come rispetto e armonia delle differenti fedi che coesistono nella Terra Santa come crocevia (prima dell’affermazione del piano di spartizione); gli aranceti di Jaffa e le sue fabbriche di carta, il vetro soffiato di Hebron, il sapone di Nablus, le piante di ulivo da proteggere come l’orto dall’attacco dei coloni. Questi sono solo alcuni degli elementi simbolici che caratterizzano i racconti, tra cui uno dei più importanti è rappresentato dalla chiave custodita dalla nonna, metafora della Liberazione della Palestina.

Il piano dei racconti si sovrappone di continuo in un rapporto di commistione tra verità e fiaba, nella quale emerge la coralità dei suoi protagonisti, come nel racconto Il vecchio e il passerotto, dove gli abitanti del campo profughi di Mar Elias in Libano prendono a turno la parola scaricando la loro tensione e la rabbia dettata da una condizione disumana. In questo racconto leggiamo dell’incontro tra il suo protagonista, il vecchio Abu Salem, e la Morte (“la sagoma entrò galleggiando con pesantezza, togliendo la luce e l’aria a quella povera stanza, e si accovacciò in un angolo”). Sarà l’incontro con il passerotto a segnare la sconfitta della Morte e la riaffermazione della Vita: «sorvolarono il cielo del campo ancora assopito […] ecco la Palestina: Acri, Haifa, ecco Jaffa, Gaza, Hebron, Gerusalemme con la sua cupola splendente».

La voce di tutto un popolo riemerge con poesia, fantasia e resistenza. Raccontare la Palestina come un ‘universale fantastico’ che racchiude nella sua storia tutte le particolari resistenze nel mondo, come Omero voce della collettività del popolo greco. Ecco, la Palestina come la Resistenza per antonomasia, che raccoglie in sé tutte le resistenze particolari sparse nella terra.

Se come scrive Mahmoud Darwish «l’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante», oggi in Palestina, e nel mondo, l’arte rappresenta ancora uno dei metodi migliori per Resistere.

Omar Suboh 


giovedì 11 maggio 2017

I racconti di Mahmoud Suboh cominciano spesso con una divertente ironia  che prende di mira giornalisti televisivi ignoranti, o indotti a raccontare una  realtà capovolta, dove la verità rimane schiacciata sotto un cumulo di menzogne  e di idiozie. Ma poi il telegiornale dà una notizia e sulla leggerezza del  racconto piomba il buio e si fa largo la tragedia. E' il telegiornale che  informa l'autore ora dell'uccisione di un amico ora di un altro diventato  martire. Affiorano ricordi di dolore e nostalgia. Ritornano le immagini  dell'infanzia quando il Medio Oriente era “la terra delle fiabe e della magia”. 

Nel racconto “All'ombra del muro”  l'autore ritorna ad un infanzia magica  quando neppure il mostro incombente dell'occupazione poteva turbare quelle  notti gremite di fiabe e di racconti ascoltati con stupore. Ma quando vi  ritorna da adulto, il villaggio non gli appare più lo stesso. 
“Il mostro è  ingrassato” ha fagocitato quasi tutta la terra, nessuno più racconta storie. Il  muro si erge davanti alle case come muro di prigione. Eppure i bambini sono  pieni di creatività, non si arrendono, allo stupito scrittore spiegano che  stanno scavando un buco nel muro, non per una dimostrazione politica, ma per  giocare  a pallone con i bambini che sono rimasti dall'altra parte. La vita non  si può impedire, e il gesto dei bambini appare come un'azione di resistenza a  chi vuole cancellare tutto ciò che c'è di bello, di giocoso e di felice nella  loro infanzia.


Anche il racconto “Alla ricerca del paradiso nell'inferno di Dante” comincia  con leggerezza. Per tutta la sera Mahmoud cova il desiderio di mangiare due  trote a cena, naturalmente con vino bianco. Quando dopo diversi impedimenti e  ritardi le trote sono in tavola precipita su di loro la notizia dell'uccisione di un amico. Il tono del racconto cambia e si è introdotti in una storia  straziante, come purtroppo sono le storie di molti migranti. Dopo tanta  sofferenza Hamed che aveva trovato un equilibrio felice nella sua vita, viene  ucciso per motivi abietti quanto futili. Il dolore della vedova e degli altri  familiari sono raccontati con commossa empatia e destano nel lettore una sorta  di rabbia e di triste partecipazione. Ma nel racconto c'è pure una  considerazione importante: al di là di culture e usi diversi, le persone sono  tutte uguali e hanno le stesse preoccupazioni e gli stessi sogni. La suocera italiana di Hamed ha un figlio che è partito per il Canada come lui è partito  per l'Italia e nei suoi discorsi ad Hamed sembra di  ascoltare le stesse parole  di sua madre. Dopo questi fatti drammatici la stampa non si smentisce e si  sofferma con pietà non sulla vittima innocente, ma sugli assassini e sulle loro  famiglie, commuovendosi su quelli che erano in fondo “bravi ragazzi”. E ci si  chiede come mai gli stupratori e gli assassini sono sempre “bravi ragazzi”.

Mahmoud Suboh sembra muoversi tra due mondi, quello in cui vive e quello che  conserva nel cuore. I racconti spaziano da un presente dove c'è la sua  professione di medico, la sua famiglia, i suoi amici e un passato pieno di  voci, di fiabe, di profumi, di danze e di corse. Ma anche di ricordi dolorosi  e di rimorsi. Quando è nel presente il tono della narrazione è ironico e leggero, poi si  apre una porta ed entra quella che è la storia vera e propria e lascia senza  fiato. Dopo aver letto questi racconti si rimane per 5 minuti in silenzio.

Nel racconto “Gente della terra santa” sarà un vecchietto, arrivato dal medico  non per un acciacco dell'età, ma perché non riesce a rintracciare nella memoria  il numero esatto degli invitati al suo matrimonio, ad aprire allo scrittore la  porta dei ricordi e di un ricordo in particolare. Al conto del vecchietto  mancano due persone,  questo gli provoca un grande disagio che diventa poi  rimorso quando con l'empatico aiuto del suo medico gli viene in mente che i  nomi dimenticati erano quelli del suo migliore amico e di sua moglie. Con  questo amico aveva diviso tutto, come aveva potuto dimenticarlo? Il paziente  guarito decide di andare a trovare la famiglia dell'amico dimenticato. E' a  quel punto che riaffiora il ricordo di Adnan. E compaiono immagini: Adnan che a  scuola vuole che si parli della Palestina e viene zittito dall'insegnante (ci  sono sempre spie in classe). 

Adnan che apriva un mondo davanti agli occhi degli  altri scolari, e spiegava loro la storia della Palestina. E poi la sua visita  al campo profughi dove viveva l'amico, il timore di venir interrogato sulla  storia, sulla cultura della Palestina, da quella gente così preparata e di fare  brutte figure, e infine la scoperta di quanto dolore impregnava le strade del  campo. La nonna di Adnan era stata arrestata, in seguito a questo fatto il  bambino aveva subito un forte trauma che lo portava ad alzarsi di notte e  ancora dormendo aprire la porta e gridare contro gli occupanti. Rattristato dal  sapere il dolore che si nascondeva dietro il sorriso di Adnan il piccolo  Mahmoud si chiedeva quante persone nel campo erano così traumatizzate.

Durante  un'incursione Adnan viene ucciso nel sonno quando apre la porta di casa e  comincia a gridare. Non riuscendo a sostenere tanto dolore il giovane Mahmoud  preferisce scappare e allontanarsi per concentrarsi sul suo futuro. Ma quel  giorno di ferragosto visitando un vecchietto che aveva dimenticato un amico,  capisce che ha lasciato qualcosa in sospeso. Non può rivedere Adnan, ma può  rivedere la nonna, quell'anziana saggia, solida come una roccia  che gli era  apparsa da bambino con una statura gigantesca e che troneggiava in un angolo  della casa  con la chiave dei profughi al collo  e raccontava, a loro piccoli,  la storia della Palestina e dei suoi poeti.

Quando però raggiunge la Palestina  apprende che la nonna è ormai morta. Si reca ugualmente nella casa, ma  guardando  verso il trono della nonna e credendo di vederlo vuoto ve la trova  assisa, con le sue rughe, con la chiave appesa al collo, vestita con il costume  tradizionale palestinese. Così come se la ricordava. Non è più la nonna di  Adnan, ma sua madre. Ha occupato il posto vuoto perché non mancasse mai una  donna anziana detentrice della memoria che istruisse i piccoli e insegnasse la  storia della Palestina e raccontasse dei suoi poeti. La mamma di Adnan, ha gli  stessi gesti e parla con le stesse parole della nonna. E' come se fossero  l'involucro mortale di una figura eterna e archetipale. Generazione dopo  generazione la memoria è mantenuta viva. E' il periodo della prima Intifada e  il campo profughi trasuda di polvere e sangue e ritratti esposti di martiri. 
Una cosa sola l'autore non può perdonare a quella donna saggia, alla nonna: non  aver rivelato che Adnan, ancora quasi un bambino, non aveva lanciato una bomba  incendiaria come dichiarava l'esercito, ma era morto sognando. 

Una storia dentro un'altra storia nel racconto “Il vecchio e il passerotto”.  Il papà racconta ai bambini di Abu Salem ed Abu Salem racconta di se, sia pure   in terza persona. Quando comincia a parlare si alza un perfetto silenzio e  tutti si mettono in ascolto, perchè Abu Salem è un grande narratore. Il vecchio  racconta di come era diventato un feday, un combattente, dopo l'assassinio
della sua famiglia. Aveva cercato di salvare la vita al suo figlio più piccolo,  lo aveva nascosto sotto le vesti di una vicina, ma non sapeva cosa ne era stato  di lui,  né se la vicina fosse riuscita a portarlo in salvo. Questa domanda lo  aveva angosciato tutta la vita fino all'arrivo della morte alla quale si  rivolge in tono di sfida. La grande mietitrice è messa sotto accusa.
Il  vecchio, che non poteva morire senza sapere nulla del suo ultimo figlio, la  fronteggia e la combatte. Alla fine la morte se ne va  sconfitta.  Abu Salem è  molto stanco, non riesce nemmeno ad alzarsi da terra dopo il titanico confronto  sostenuto.  Ma ecco che un  piccolo volatile, il più piccolo e tenero degli  animali, un passerotto, lo rianima con il suo cinguettio. E' così piccolo  eppure così potente, come è potente la speranza e dispiega ali portentose per  portare Abu Salem in un viaggio sopra quella che era stata la sua cittadina,  lui la vede nel ricordo di com'era e anche nella trasformazione che ha subito.  Quando torna a casa si procura un rastrello e con l'aiuto dei ragazzi della  casa pulisce tutto, pianta fiori mette a dimora piante, cambia l'aspetto del  villaggio che ora splende di luci e di colori. Da tanto entusiasmante amore per  la bellezza, prima vengono contagiati gli abitanti del suo villaggio poi degli  altri villaggi.  
Abu Salem diventa un esempio. Qualcosa è scattato in lui,  risollevandolo dalla rabbia custodita da anni. Così scrollandosi di dosso i  suoi dolorosi ricordi sceglie la vita e la sua bellezza.  I villaggi e i campi  profughi si aprono alla luce della speranza e cominciano a progettare il  proprio futuro ritrovando la fierezza antica.

Quando poi crede che la morte sia tornata a fargli visita scopre invece che la  sagoma nera che si avvicina è quella di un uomo: suo figlio. E questo racconto  non poteva finire che così, alla fine della storia pensiamo che Abu Salem se lo  è proprio meritato questo finale. Con la sua innata capacità di affabulazione. Mahmoud Suboh ci regala dei  racconti che arrivano direttamente al cuore,  informano, commuovono, rapiscono  il lettore, aprendo una finestra su una realtà e un mondo che l'autore non  conosce soltanto ma che porta nell'anima.

Miriam Marino. 

Incursioni notturne

Continuai a vedere Adnan a scuola, ed a divertirmi con lui. Qualche volta sono tornato a trovare la nonna, per sentire il profumo del suo pompelmo. Da lei ho imparato qualcosa sulla poesia: Samih Al Qassim, Taufiq Ziad… gli ultimi due erano i suoi preferiti. Grazie a lei conobbi la musica ed folk palestinese. Era una maestra completa, quando la sentivo raccontare, sentivo il suo orgoglio e la sua dignità, il suo orgoglio come il suo dolore. Anch’io ero fiero ed orgoglioso, anche se non avevo perso la casa, il mio albero di limoni… ed il pompelmo.

Finché un giorno non vidi Adnan. Per cinque giorni non si presentò a scuola, e quando rientrò lo trovai distratto, triste, preoccupato… Lo spaventava anche il minimo rumore, non partecipava e non contestava gli insegnanti, era assente. Durante la ricreazione mi avvicinai a lui e gli chiesi: “Cosa c'è Adnan? Cosa ti è successo? Hai qualche problema? Stai bene?”

“Adesso sì”, rimase un attimo in silenzio e fece un grande sospiro, “sai… hanno arrestato la nonna… l’hanno accusata di essere il capo di una cellula dei fedayn! Mia nonna un capo militare? Un fedayn? Ad ogni modo adesso, grazie anche alla Croce Rossa, l’hanno rilasciata ieri, dicendo che l’avevano arrestata per errore!” Resto per qualche secondo in silenzio, poi Adnan ricominciò a parlare.

“Durante una delle loro solite retate nel campo, alle tre del mattino, hanno rotto la porta di casa, non solo la nostra, ma anche di molti altri abitanti del campo. Hanno trascinato via dei ragazzi, gli uomini e mia nonna, tutti con gli occhi bendati, sotto le minacce dei loro fucili... le donne strillavano cercando d’impedire l'arresto dei ragazzi, i bimbi piangevano terrorizzati mentre gli anziani, rassegnati, cercavano di calmare la gente e quei maledetti assassini pronti ad uccidere.”

“Come sta adesso la nonna?”
“Bene, lo sai che lei è un osso duro. Ma ti rendi conto? Queste bestie hanno trascinato mia nonna in carcere! Lei che a malapena riesce a muoversi… lei sarebbe un pericolo per la sicurezza d’Israele? Un fedayn?”


Ero immerso nei miei pensieri, e ripensai alla frase di mia madre: “E’ solo questione di tempo.” Tuttavia morivo anche dal desiderio di vedere la nonna, di dirle quanto ero dispiaciuto. Ero anche curioso di sentire la sua storia, il racconto della sua prigionia, e se il carcere come dicono gli uomini, i fedayn, fosse da desiderare… i palestinesi erano soliti dire: “Non temete il carcere, anzi desideratelo!”

mercoledì 10 maggio 2017

Gente della terra Santa

La nonna, con una voce che sembrava provenisse dall’al di là, disse: “Per me un caffè amaro, perché dopo il dolce ci vuole qualcosa di amaro.”

Riprese a coccolare il suo ciondolo, lo accarezzava, lo rigirava di nuovo, dopo toccava le rughe della fronte e delle mani, dunque di nuovo la chiave con tutte e due le mani, formando una figura che, avrei giurato, fosse di una colomba che stesse per spiccare il volo.

La Nonna dunque intimò: “Chiedo ai figlioli, solo per capire l'origine, se sapete che i nostri cognomi sono come i nostri costumi tradizionali, dal colore e dal disegno ricamato! Da questi voi potete risalire da quale paese proviene la persona che lo indossa! Come il cognome che viene da Jaffa, sì Jaffa il nostro paese, il nostro paradiso terrestre. Che siano maledetti gli israeliani, maledetti… vivevamo in pace prima che arrivassero a seminare morte e distruzione. Sapete come venivano chiamati gli abitanti della Palestina?

Ahl Al-Ard Al-Moqaddassah

La Famiglia della Terra Santa, Gente della Terra Santa. Capite? Eravamo una famiglia: musulmani, cristiani ed ebrei. Si viveva in armonia, in simbiosi e fratellanza perché ci consideravamo proprietari dei luoghi sacri, i guardiani di questa terra, avevamo il privilegio di viverci e di proteggere questo luogo santo, come una vera famiglia. Sì eravamo una famiglia. Le feste erano di tutti, non si poteva fare diversamente, si contavano all'epoca più di seicentoventidue siti sacri ‘misti.’ Lo sapete che i musulmani facevano battezzare i propri figli nelle chiese greco-ortodosse per avere la benedizione del Dio dei cristiani, ed in cambio i cristiani, in campagna, frequentavano le moschee dei musulmani? I cristiani e gli ebrei erano nostri fratelli, eravamo, come vi dicevo, Gente della Terra Santa...”

La nonna parlava come se recitasse una poesia, un poema, quasi senza pausa e senza respiro. Forse aveva paura di perdere il filo del discorso. Ogni tanto emetteva un sospiro, le sue mani sembravano impazzire nel toccare la chiave.

“C'era l'Islam che garantiva quest’armonia e non c'era nel mondo un luogo ed una convivenza simile. Tutto questo si conservò fino alla fine del diciannovesimo secolo, nel mondo dominava il colonialismo, lo sfruttamento dei deboli e delle loro risorse invece della cooperazione... c'era il dominio, e così hanno diviso il mondo in civili e selvaggi, e noi, che eravamo l'esempio dell'armonia e della fratellanza, diventammo selvaggi indegni della Terra Santa!


Secondo questa ideologia del dominio, l'imputato principale era il musulmano. Dicevano che in questa terra i cristiani e gli ebrei fossero diventati come i musulmani, ovvero che quella cultura aveva fatto perdere loro la ragione, occorreva risanarli! In poche parole, insomma, secondo questo modo di pensare, i palestinesi di religione differente dovevano assomigliare agli ebrei, oppure ai cristiani inglesi o francesi! Per riportare questa terra alla civiltà, si dovevano cacciare e se necessario uccidere i suoi abitanti, a prescindere dal loro credo, e cosa ancora più grave: sostituire gli indigeni con degli ebrei civili con valori europei. Tuttavia,  tutto ciò lo scoprimmo quando era già troppo tardi.”

Adnan, il mio amico profugo

Il giorno seguente Adnan fu nostro ospite, dopo il primo momento d’imbarazzo e timidezza, mangiò come se fosse a casa sua! Ogni volta diceva basta, ma ne prendeva ancora e non smetteva di dire che era tutto buono: “E’ da molto che non mangio pollo, patate e cavolfiore… che brava signora, è buonissima questa makloubeh…” Tuttavia non smetteva di dire che era profugo, che proveniva da una famiglia di profughi, vivevano nel campo di Deheshahe e di quanto fosse dura la vita dei profughi.

“Lo spazio stretto e le case sono l'una addossata all’altra, invece, la vostra casa è così bella spaziosa e luminosa, c'è anche il cortile! Da noi, invece, ci sono le fogne nelle viuzze del campo, odore fetido ma ci sono abituato, la spazzatura… la sporcizia! Com’è dura la vita nel campo! Mia nonna dice che un giorno anche noi ritorneremo a casa nostra, dice che è fatta di pietra come la vostra, abbiamo un terreno pieno piante di arancio, limoni e pompelmo. Un giorno torneremo, questo campo è solo momentaneo, perché essere profughi è dura ed è ingiusto, noi vogliamo la nostra casa che gli israeliani ci hanno rubato!”

I miei genitori ascoltavano, lasciandolo parlare con pazienza e comprensione. Cercavano di fargli capire che non eravamo ricchi, e che noi abbiamo avuto solo fortuna, ma anche tre figli immigrati per poter avere questa casa. Intanto Adnan continuava con la sua litania, il suo essere profugo. Finché mia madre, quasi offesa, gli disse: “Figliolo, non siete solo voi i profughi, siamo tutti profughi!”
Questa fu la sua sentenza e cosi chiuse il discorso, non c'era possibilità di ulteriori chiacchiere o commenti, questa era la sua sentenza, fine. Ci fu un silenzio che durò qualche secondo, mi sembrava infinito, un lungo attimo  di riflessione.

Siamo tutti profughi? Non avevo mai sentito mia madre dire questa cosa, parlare di profughi? Nonostante mia zia vivesse in un campo profughi, sempre alla periferia di Betlemme, all'estremo opposto del campo di Deheshah. Fui comunque colpito da questa frase e cercai di capire cosa volesse dire.


Sono nato a Betlemme, in una camera grande, che di giorno era soggiorno e di notte camera da letto per tutti, genitori e figli, dormivamo e mangiavamo tutti insieme, il sole non entrava ed il bagno era in comune con gli altri appartamenti. Ad ogni modo, ero anch’io un profugo? Questo non lo sapevo e non mi disturbava, semplicemente, non capivo perché i miei genitori non avessero mai raccontato questo fatto.

Il mostro sulla collina

Appena scendevamo dal l'autobus: mia madre cambiava espressione, si guardava intorno nella speranza che passasse qualche macchina o qualche mezzo di trasporto, evitandoci la fatica della strada. Tuttavia, dopo circa dieci minuti di cammino, ecco che accelerava il passo, la camminata diventava una corsa affannosa. Aveva la cesta sulla testa con qualche dono per lo zio, un po' di caffè, caramelle, zucchero... poche cose, ma avevano il loro peso: nonostante ciò, lei aveva il passo veloce, una cavalla selvaggia che non sa cosa significhi la fatica.
Tuttavia, adesso comprendo perché quella donna diventava così angosciata e scattante.

Alla nostra sinistra c'era una sorta di fortezza, una colonia israeliana, un mostro giacente sulla collina, una cancellata immensa con soldati armati fino a denti. Mia madre senza guardare, pur guardando, sveltiva il passo, sentivo il suo cuore accelerare il battito, la trascinava in folle corsa e lei trascinava me. La sua mano era sudata, ma dalla presa sempre più forte, mi trascinava con lei a seguire il suo cuore improvvisamente impazzito.

Io guardavo quel mostro: cosa ci faceva lì? Fra gli alberi di olivo, su quella collina che dominava la pianura! Quanto era brutta quella fortezza e quei soldati, in quel verde così profumato e bello. Mia madre, intanto, accelerava il passo sempre di più e sembrava dire: ‘fai come me, non guardare lì!’ Tuttavia io guardavo di nascosto, c'erano i soldati armati e qualche volta c'erano bambini, non avevo mai capito se ci stessero salutando o minacciando...

Inoltre, c’erano numerose torrette e filo spinato, loro ci osservavano e noi senza guardarli sentivamo i loro sguardi cattivi, come quel cancello: sembrava una grande bocca pronta ad inghiottirci. Occorreva accelerare il passo e superare quella costruzione spaventosa aliena dalla natura, che sapeva di case senza cancello e senza armi, case semplici, vive alla luce di una lanterna al petrolio.
Appena si arrivava al villaggio, superato il mostro, il cuore di mia madre assumeva il suo ritmo regolare. I bambini ci accoglievano con gioia e curiosità come dire: ecco la gente di città!
Sembrava quasi che ci toccassero per vedere se eravamo uguali a loro! Noi... vestiti bene e puliti.
Ma mia madre, il sospiro di serenità lo faceva solo quando eravamo a casa di mio zio, un buon bicchiere d’acqua ed ecco il grande anelito di liberazione.

Superata la fase di perplessità, ed acquisito un po’ di confidenza con l'ambiente ed i cugini che non vedevo da un anno, iniziavo con loro la corsa fra gli alberi, e a saltare giù per la valle. Ecco l'uva fresca, ecco la bella vita in attesa del pranzo: un agnello sacrificato nel nostro onore con yogurt e riso a volontà.

La porta della casa restava aperta e le persone entravano a mangiare come se fosse casa loro, non avevano bisogno d’invito o complimenti, i bambini timidi avevano le tasche dei pantaloni gocciolanti di grasso: i pezzi di carne che i grandi gli offrivano, li mettevano in tasca e correvano fuori a mangiarli, lontano dagli sguardi della gente di città!


martedì 9 maggio 2017

Mare che salvi, mare che uccidi... fammi salire sulle tue onde, e riportami a casa...

“Vieni, entra, hanno ammazzato Ahmad! Quei cani, vigliacchi, fascisti, razzisti...  ma cosa ne sapevano loro! lo hanno ucciso perché era il campanile delle coscienze sepolte di questo mondo senza morale e valori. Lo hanno ucciso per il colore della sua pelle, oggi per la legge era un delinquente che spacciava droga! Lui? Maledetti! Sei andato al mare a cercare Ahmad? Volevi fuggire anche tu da questo paese? O aspettavi che il mare partorisse di nuovo il tuo amico? Quel mare che mi ha portato Ahmad sputa solo cadaveri di persone che sognano la vita e la libertà! Eppure la gente ci passa sopra, si abbronza accanto a loro. Vorrei giustizia per me ed il mio piccolo... questo mondo deve cambiare,questi assassini devono pagare!”

“Povera amica mia,”, pensai, “e chi sarebbero gli assassini? Le multinazionali, i governi, la politica della sicurezza basata sull'odio per il diverso... era un italiano, ma dal colore cioccolato quanto bastava per renderlo straniero!”
Cercai Kamal, ed eccolo arrivare con due bambini della vicina. Corse verso me e disse: “Babbo è partito... è andato in Marocco a vedere nonna che sta male...”
“Quanto assomigli a tuo padre... Hai i suoi ricci color carbone, ed il colore della sua pelle. Domani anche tu verrai fermato alle frontiere e dovrai mostrare il tuo essere italiano, dovrai recitare la Costituzione del tuo paese. Non importa che gli altri, giuristi compresi, non la conoscano, tu dovrai conoscerla alla perfezione!
Immaginai l'avvenire, forse pensando al passato?

Era una giornata senza fine, rientrai a casa tardi. Passai prima alla spiaggia, la gente cercava il fresco e faceva chiasso, io cercavo il mio amico, che quando dormiva per strada, sperava di vivere. Aveva paura della morte, anche se moriva tutti i giorni di rimorsi per il padre morto dopo la sua partenza, quel pezzo di terra era la sua anima, doveva vivere per realizzare un sogno. Una vita migliore, adesso, non per lui ma per i suoi familiari. Ricordo quando dicevi: “Quando li aiuterò... quando li vestirò... potrò anche morire...”, ma tu morivi tutti i giorni, per i soldi, per la nostalgia. Le loro richieste? Soldi sempre soldi, i tuoi soldi, i soldi della tua famiglia, un fratello che si sposa, una sorella che si fidanza. E poi c’era la casa da sistemare, noi viviamo in un paese povero, tu in uno ricco, non come noi, poveri di fame!


Mare fammi strada, ti prego, portami a casa mia, lo so che le strade sono chiuse, ma solo oggi vorrei abbracciare i miei familiari. Vorrei soltanto un tè da una mano fraterna. Sedermi a mangiare miseria e pane, ti prego, mare, fammi vedere i miei simili anche se oggi siamo diversi, scaldami perché ho freddo ed il grembo della mia famiglia è caldo. Portami dai miei fratelli e sorelle. Dammi un pizzico di coraggio, affinché possa salire sulle tue onde, e ritornare a casa... a casa.

Raccontare la Palestina e la sua collettività come pratica di Resistenza. Di Omar Suboh

Postfazione Raccontare la Palestina e la sua collettività come pratica di Resistenza. Scrivere una postfazione per un autore è, e...